Arte

«Flusso di incoscienza». Vittorio Sgarbi racconta Vincenzo Mascoli

La Redazione
Marco Lodola e Vincenzo Mascoli per “SpaceOfHumanity”
«Cosa siamo diventati, rispetto al grande flusso oggi dilagante?». Sgarbi firma il testo critico che "introduce" una mostra di Vincenzo Mascoli
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È Vittorio Sgarbi a firmare il testo critico che “introduce” un’altra interessante mostra d’arte che vede protagonista l’artista Vincenzo Mascoli, la bi-personale “SpaceOfHumanity”. Mascoli, insieme a Marco Lodola, dal 9 luglio esporrà le sue opere nella suggestiva chiesa Ortodossa di San Nicola, un piccolo splendore artistico nel centro storico di Locorotondo.

«Lo schema lo si individua facilmente – scrive Sgarbi – Davanti, una figura in dimensioni maggiorate, dipinta realisticamente anche quando per cenni essenziali, il più delle volte lasciando che la sua trasparenza riveli un flusso sottostante che non interrompe, limitandosi a sovrapporsi su di esso come una vetrofania. Dietro, appunto, un grande flusso, costituito da immagini e scritte ricavate da ritagli di giornali che vengono assemblate a collage, dalla provenienza più variegata, ma attingendo prevalentemente a quel repertorio del trash che una volta era proprio della cosiddetta “stampa popolare”, e che oggi, invece, accomuna carta stampata, televisione e internet senza soluzione di continuità, dandosi il tutto, opportunamente amalgamato grazie anche all’impiego di libere pennellate in funzione di raccordo, come un insieme di relitti galleggianti visti a volo d’uccello, sospesi nell’acqua di porto più stagnante e sudicia che ci possa essere.

Non c’è dubbio, Vincenzo Mascoli mira allo standard, a fare in modo, cioè, che lo schema di rappresentazione adottato venga identificato come propria cifra stilistica, seguendo in ciò la tendenza più comune all’arte maggiormente à la page del secondo Novecento, a cui l’artista pugliese ha certamente guardato (la Pop Art, naturalmente, come è stato già notato, ma forse ancora di più, nell’ottica della poetica bricolière, il Nouveau Réalisme, in ripresa e aggiornamento degli assemblages dadaisti).

Non credo, però, che il ricorso al facilmente individuabile, che pure finisce per funzionare come un marchio di fabbrica, risponda in Mascoli alla stessa sollecitazione che divenne dominante nell’arte novecentesca da lui presa a riferimento, ovvero dall’esigenza di convertire la ricerca alle richieste del mercato, esaurendola di fatto. È che in Mascoli lo standard è l’archetipo di una condizione più generale, già preannunciata dalla Pop Art e dal Nouveau Réalisme, ma diventata tipica, nel parossistico dilagare della comunicazione mediatica, della nostra epoca, per cui nulla può più darsi al di fuori di esso.

Non c’è più la purezza di spirito e di espressione, vecchio mito romantico per cui si è creduto di potere ancora contemplare, negli uomini, la presenza di un genio primitivo, non esiste più l’originalità, e se anche ci fosse, probabilmente non servirebbe a nulla. Tutto, nel mondo attuale, è stato già detto e visto, tutto è preconfezionato, ma viene ripetuto ugualmente, deve continuare a mostrarsi come in uno spettacolo infinito, una grande narrazione senza un costrutto che sia alternativo all’automatismo per cui si manifesta, un parler pour parler, voyer pour voyer in cui vero e falso, importante e inutile, nobile e volgare, intelligente e idiota si confondono disinvoltamente nelle sabbie mobili di una stessa melassa omogeneizzante.

E non si tratta più, come era ancora ai tempi di Warhol e Restany, di uno spettacolo a cui si assiste passivamente, perfino con senso di soggezione, davanti all’onnipotenza del Big Brother orwelliano che traspariva da un logo di successo riprodotto da un cartellone pubblicitario o da uno schermo televisivo, ma di un sistema globale in cui ciascuno può disporre dei mezzi, diventati alla portata di tutti, in grado di rendere ogni spettatore anche un elaboratore autonomo di spettacolo che viene immesso nello sbocco universale del grande flusso, democraticamente partecipando all’affermazione della sua tirannia assoluta.

Cosa siamo diventati, rispetto al grande flusso oggi dilagante? È questa, credo, la domanda di fondo che si pone Mascoli e su cui ci invita a riflettere, riconoscendo all’arte, la sua arte, una prerogativa speciale, la capacità di bloccare ciò che di per sé tenderebbe a essere un panta rei in continuo movimento e a lasciare segni sempre più labili nella nostra coscienza, individuale e collettiva.

Siamo davvero delle trasparenze, fagocitati da un’entità troppo più grande di noi, informazioni confuse ad altre informazioni, parvenze fra parvenze che non riconoscono più precise distinzioni fra reale e virtuale, minando alla base il senso stesso della nostra individualità? Possiamo ancora riconoscerci una memoria, davanti a questa grande memoria dell’incerto e dell’instabile che vuole disgregare tutte le altre? Ed è, questo, uno stato esistenziale che deve angosciarci, imponendoci una presa di posizione inevitabilmente critica nei confronti del fattore degenerante, come le opere di Mascoli potrebbero sembrare suggerire, oppure, allo stesso modo, un dolce naufragare che può preludere a una condizione ancora più allettante, un eterno presente in cui si verifichi la sostanziale dissociazione dall’ordine delle cose terrene, con tutti gli annessi e connessi del caso? A Mascoli, e a noi, l’ardua sentenza».

lunedì 19 Giugno 2017

(modifica il 23 Luglio 2022, 8:37)

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